Il Suo volto brillò come il sole e le Sue vesti divennero candide come la luce
Il Vangelo di Matteo colloca questa scena in un momento delicato per gli apostoli. Gesù, infatti, poco
prima aveva loro detto chiaramente “che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte
degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno” (Mt 16,
21). Nello stesso tempo aveva detto loro, anche qui con assoluto realismo: “Se qualcuno vuol venire
dietro a me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita,
la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 24-25). È comprensibile
lo stupore e il timore dei discepoli davanti ad avvertimenti tanto gravi. Perciò ora vuole alimentare la
loro speranza, manifestando la sua gloria davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Sale su un alto monte
accompagnato da tre discepoli, in modo analogo a come Mosè salì sul monte Sinai accompagnato da
Aronne, Nadab e Abiu, seguiti dagli anziani del popolo (Es 24, 9). Questi stessi tre apostoli saranno
poi designati nel Getsemani perché ad accompagnarlo più da vicino, mentre gli altri rimanevano un
po’ più distanti dal luogo in cui Gesù pregava nella sua agonia (Mc 14, 33). Sono in contrasto fra loro
le scene di felice splendore e quelle di angosciosa sofferenza nelle quali Pietro, Giacomo e Giovanni
gli tengono compagnia, ma, nello stesso tempo sono in rapporto tra loro: non c’è gloria senza croce.
Mosè ed Elia, che avevano contemplato la gloria di Dio e ricevuto la sua rivelazione sul monte
chiamato Oreb o Sinai (cfr. Es 24, 15-16 e 1 Re 19, 8), stavano con Gesù su questo alto monte quando
“fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come
la luce” (v. 2). Ora contemplano la gloria e parlano con colui che è la rivelazione di Dio in persona.
Pietro non può tacere la sua gioia ed esclama: “Signore, è bello per noi stare qui! Se vuoi, farò qui tre
capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (v. 4). La sua proposta esprime il desiderio di ogni
cuore umano di rimanere per sempre a contemplare con gioia la gloria di Dio. A questo siamo stati
chiamati, alla beatitudine. Dalla nube luminosa che li avvolge si sentono alcune parole piene di
significato: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (v.
5). L’espressione “il Figlio mio, l’amato”, è un’eco di quella nella quale Dio si rivolge ad Abramo
per chiedergli di sacrificare suo figlio Isacco: prendi “tuo figlio, che ami” (Gn 22, 2). In tal modo si
stabilisce un parallelo tra la drammatica scena della Genesi, nella quale Abramo è disposto a
sacrificare Isacco, che lo segue senza opporre resistenza, e il dramma che si consumerà sul Calvario
dove Dio Padre offre il proprio Figlio in sacrificio accettato volontariamente per la redenzione del
genere umano. Infatti nella scena della trasfigurazione la Chiesa ha visto una preparazione degli
apostoli a sopportare lo scandalo della Croce. D’altra parte, l’aggiunta “ascoltatelo” ha chiare
risonanze con le parole che il Signore rivolge a Mosè nel Deuteronomio: “Il Signore tuo Dio susciterà
per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18, 15). Colui
che è il Figlio che Dio Padre consegna alla morte, Gesù, è anch’egli il profeta che, come Mosè, deve
essere ascoltato. “Da questo episodio della trasfigurazione vorrei cogliere due elementi significativi
– diceva papa Francesco –, che sintetizzo in due parole: salita e discesa. Noi abbiamo bisogno di
andare in disparte, di salire sulla montagna in uno spazio di silenzio, per trovare noi stessi e percepire
meglio la voce del Signore. Questo facciamo nella preghiera. Ma non possiamo rimanere lì!
L’incontro con Dio nella preghiera ci spinge nuovamente a “scendere dalla montagna” e ritornare in
basso, nella pianura, dove incontriamo tanti fratelli appesantiti da fatiche, malattie, ingiustizie,
ignoranze, povertà materiale e spirituale. A questi nostri fratelli che sono in difficoltà, siamo chiamati
a portare i frutti dell’esperienza che abbiamo fatto con Dio, condividendo la grazia ricevuta”
Diacono Ciro Petrone