Solennità del Corpus Domini
II DOMENICA DOPO PENTECOSTE
Inquadriamo le origini di questa solennità. La festa del Corpus Domini cominciò a essere celebrata a Liegi nel 1246 e fu estesa alla Chiesa intera dal papa
Urbano IV nel 1264. La processione con l’ostia consacrata, visibile nell’ostensorio e sotto un baldacchino o su un carro trionfale, si diffuse nel sec. XIV.
Nata per affermare la presenza reale di Cristo col suo corpo e col suo sangue nell’eucarestia contro gli errori che negavano questa verità, la festa di domenica deve costituire un momento di riflessione sul valore del culto dovuto al mistero eucaristico in tutta la sua pienezza.
La presenza sacramentale del Corpo e del Sangue di Cristo è una conseguenza del memoriale e del sacrificio realizzati nella santa Messa: la conservazione dell’Eucarestia
ha come scopo primo e primordiale l’amministrazione del viatico ai moribondi, e, come fini secondari, la distribuzione della comunione e l’adorazione di nostro Signore fuori della Messa (Rito cit, n. 5).
Senza il contatto col corpo e il sangue di Cristo nella partecipazione piena alla cena con la comunione non c’è la salvezza. L’ha detto Gesù (cfr. Gv 6,53-58).
Il concilio Vaticano II ha insegnato: «Non è possibile che si formi una comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della Sacra Eucarestia, dalla quale deve quindi prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità. E la celebrazione eucaristica, a sua volta, per essere piena e sincera deve spingere sia alle diverse opere di carità e al reciproco aiuto, sia all’azione missionaria e alle varie forme dì testimonianza cristiana» (P0 n. 6/1261). (Decreti Ministero e vita sacerdotale).
Ed ora la Parola che ci viene proclamata.
La prima lettura tratta dal Deuteronomio (seconda legge…) in realtà sono delle omelie appassionate sugli eventi fondamentali della grande epopea esodica. Il cap. 8 è stato definito «il comandamento per un tempo di benessere». Israele vive in Palestina ormai dedito alla vita sedentaria e tranquilla dei costumi. Il rischio però è che la fede possa affievolirsi per l’orgoglio dei progressi, l’autonomia umana, l’indipendenza economica, che racchiudono il pericolo del peccato «originale» di superbia. «Ricordarsi» diventa allora l’appello fondamentale del Deuteronomio, sinonimo di «credere» e impegnarsi nel rinnovare con Dio l’alleanza di un tempo che ora sembra essere dimenticata nell’agiatezza dei costumi. Quindi questo “ricordo” biblico introduce nuovamente il fedele nella storia della salvezza così come il “memoriale” di salvezza ripreso nel N.T. nella nostra Eucaristia.
Paolo sta scrivendo alla comunità spezzata di Corinto, divisa in sette e gruppuscoli vari. Fa appello alla “comunione col corpo di Cristo”, condizione essenziale per rimanere saldi come comunità. “La nostra koinonia con Cristo è talmente profonda da produrre la comunione con i fratelli: se la prima non fosse reale, non sarebbe reale neppure la seconda” (S. Cipriano). È indispensabile verificare le nostre eucarestie proprio sulla base dell’agape concreta ed esistenziale che genera nella comunità ecclesiale. Altrimenti è solo rito tradizionale e persino magico, come ammonisce lo stesso Paolo al c. 11. È un’esigenza proclamata sempre dalla Chiesa, ascoltiamo la Didachè: «Come i grani di frumento che sono sparsi sulle colline, raccolti e fusi insieme, hanno fatto un solo pane, così o Signore, fa’ di tutta la tua Chiesa, che è sparsa su tutta la terra, una cosa sola; e come questo vino risulta dagli acini dell’uva che erano molti ed erano diffusi per le vigne coltivate di questa terra ed hanno fatto un solo prodotto, così, o Signore, fa’ che nel tuo sangue la tua Chiesa si senta unita e nutrita di uno stesso alimento».
Nella sinagoga di Cafarnao Gesù aveva annunciato la sua rivelazione sul dono del “pane di vita” (vv. 26-35) da accogliere nella fede (vv. 36-50).
Il “rimanere” nostro in Lui e suo in noi stabilisce una specie di immanenza reciproca già da adesso. È una presenza non magica perché è dialogica: al suo “restare” in noi deve corrispondere il nostro “restare” in Lui attraverso la fede. Questo in forza della autorevole affermazione: «la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda».
Giuseppe Luise diacono